La mattinata dello scorso primo febbraio ha visto un’interessantissima relazione del Professor Giulio Simeoni, docente in Preistoria e Protostoria all’Università di Udine. L’intervento è stato un viaggio nelle modifiche strutturali del genere Homo, dalla sua origine circa 2,5 milioni di anni fa fino all’Homo sapiens, la specie di cui facciamo parte, comparsa circa 300.000 anni fa. Noi umani ci collochiamo nella superfamiglia delle scimmie antropomorfe (dalle grandi dimensioni e senza coda), non deriviamo dalle scimmie che, come noi, hanno avuto una loro evoluzione.
La separazione evolutiva: il bivio tra Panina e Hominina
Circa 6-7 milioni di anni fa dagli Hominini ci fu la separazione fra i Panina e gli Hominina. I primi, da cui hanno avuto origine gli scimpanzé, mantennero le caratteristiche adatte alla vita nella foresta (struttura fisica idonea per arrampicarsi sugli alberi, denti più grandi per
masticare bacche e fibre); i secondi, da cui discende il genere Homo, iniziarono a sviluppare un’andatura bipede, quindi una posizione eretta e più stabile. Questa fu la prima modificazione che porterà verso l’Homo sapiens.
L’impatto della Great Rift Valley sull’evoluzione umana
Come avvenne questo cambiamento? Gli studi ci dicono che nell’Africa centro-orientale, luogo di origine della nostra specie, circa 35 milioni di anni fa si verificò una spaccatura del Mar Rosso chiamata Great Rift Valley. Essa portò a condizioni ambientali diverse: un clima più secco e arido, una vegetazione steppica, minor densità arborea e sviluppo della savana. Le modificazioni strutturali accidentali già presenti in alcune specie si rivelarono vantaggiose in questo nuovo habitat, favorendo la bipedia e trasmettendola ai discendenti.
Adattamenti morfologici e sviluppo del bipedismo
Mentre le scimmie antropomorfe rimaste all’interno della foresta non avevano necessità di modificarsi, altre svilupparono caratteristiche strutturali particolari: il forame magnum più anteriore, una riduzione della dimensione dei denti, una robustezza della parte laterale del piede e una diversa conformazione dell’acetabolo rispetto al femore. Questi cambiamenti morfologici portarono a una postura maggiormente eretta, favorendo l’adattamento alla locomozione terrestre e consolidando il bipedismo.
Un aspetto determinante nell’evoluzione del genere Homo è stata la morfologia della mano. Rispetto a quella di uno scimpanzé, la mano umana ha sviluppato un pollice opponibile più lungo e articolazioni più flessibili, che hanno permesso una presa di precisione fondamentale per la manipolazione degli oggetti e la costruzione di strumenti. Questo adattamento ha avuto un ruolo chiave nello sviluppo tecnologico e culturale dell’umanità.
Dagli Australopiteci all’Homo habilis: le prime fasi dell’evoluzione umana
Gli Australopiteci (vissuti circa 3,2 milioni di anni fa) avevano un’andatura bipede ormai stabile, ma riuscivano ancora ad arrampicarsi sugli alberi. Lo sappiamo dai ritrovamenti fossili (la famosa Lucy) e dalle impronte rinvenute in vari ambienti (Laetoli, Koobi Fora). Queste ultime mostrano diversità morfologiche che si sarebbero mantenute fino al genere Homo. Il cammino su due gambe fu la prima conquista! L’Homo habilis (da circa 2,4 milioni a 1,4 milioni di anni fa) è considerato un modello ancora arcaico, più simile alle australopitecine che agli umani moderni. Presentava una maggiore capacità cranica, braccia ancora lunghe (indice di una vita parzialmente arboricola), una riduzione del prognatismo mandibolare e denti più piccoli. Il bipedismo era
ormai obbligatorio. I resti si trovano in Etiopia, Tanzania e Sudafrica.
L’Homo erectus e l’espansione fuori dall’Africa
Con l’Homo erectus (circa 2 milioni a 110.000 anni fa) si ha una svolta evolutiva
significativa: aumenta la capacità cranica, il cranio si allunga con una marcata
protuberanza occipitale, le arcate sopraorbitarie sono massicce, la fronte sfuggente e i denti più piccoli. Da esso si origina l’Homo ergaster, che per la prima volta uscì dall’Africa, riuscendo a coprire notevoli distanze a piedi. L’Homo erectus si diffuse principalmente in Asia meridionale.
Le prove dell’intelligenza nei Neanderthal
L’Homo neanderthalensis, vissuto tra 400.000 e 40.000 anni fa, ha lasciato numerose prove della sua intelligenza. Oltre ai resti fossili, troviamo testimonianze anatomiche, genetiche e simboliche che dimostrano capacità cognitive avanzate. Studi genetici confermano che i Neanderthal condividevano una parte del loro DNA con gli esseri umani moderni. Inoltre, i ritrovamenti di sepolture intenzionali e manufatti decorati suggeriscono
un pensiero simbolico e una forma primitiva di spiritualità.
L’encefalizzazione e il progresso cognitivo
L’encefalizzazione, ossia l’aumento della dimensione del cervello in rapporto al corpo, caratterizza il genere Homo: dai 500-700 cm³ dell’Homo habilis, ai 750-1100 dell’Homo erectus, ai 1200-1750 dell’Homo neanderthalensis. L’Homo sapiens, che non deriva direttamente dal Neanderthal, sviluppa un volume cerebrale di 1300-1600 cm³. La liberazione degli arti superiori dalla locomozione permette nuove abilità manuali e creative, ponendo le basi per lo sviluppo tecnologico e culturale.
L’Homo sapiens e la nascita del pensiero astratto
L’Homo sapiens, comparso circa 300.000 anni fa e giunto fino ai giorni nostri, ha segnato il culmine dell’evoluzione del genere Homo. Con il suo arrivo emergono grandi cambiamenti: l’arte rupestre, l’uso di ornamenti, le prime forme di espressione simbolica. Il pensiero astratto e la capacità di pianificare il futuro distinguono l’uomo moderno dagli altri primati. L’Homo sapiens non solo sopravvive, ma diventa la specie dominante grazie alla sua adattabilità e alla cooperazione sociale.
Conclusione: un’evoluzione senza fine
L’evoluzione del genere Homo è una storia affascinante di adattamento, innovazione e trasformazione. L’Homo sapiens, grazie alle sue capacità cognitive e sociali, è riuscito a sopravvivere e a imporsi come specie dominante. L’evoluzione non è un processo lineare, ma un continuo intrecciarsi di cambiamenti accidentali e adattamenti vincenti. Oggi, grazie alla ricerca scientifica, possiamo ricostruire il nostro passato e comprendere meglio le origini della nostra specie, aprendoci nuove prospettive sul nostro futuro.